
Nel settembre 2015, a New York, le Nazioni Unite lanciarono quella che venne subito definita “la più ambiziosa agenda mai adottata per il futuro dell’umanità e del pianeta”. Fu un momento solenne. I 193 Paesi membri adottarono all’unanimità l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, articolata in 17 Obiettivi e 169 target. La promessa era chiara: entro il 2030 avremmo messo fine alla povertà, garantito l’uguaglianza, contenuto il riscaldamento globale, invertito la perdita di biodiversità e assicurato giustizia e benessere per tutti.
L’impianto narrativo era potente, al limite del messianico.
“Non lasceremo indietro nessuno.”
“Abbiamo 15 anni per cambiare il corso della storia.”
“Possiamo essere la prima generazione a sconfiggere la povertà, e l’ultima a salvare il pianeta.”
Dietro la facciata, l’impotenza istituzionale

Con uno sforzo comunicativo senza precedenti, gli SDGs furono trasformati in un brand: loghi colorati, ruote multicolore, campagne globali, testimonial, persino un font ufficiale. Il linguaggio della trasformazione sociale veniva assorbito dentro una forma apparentemente neutra e universale. La politica lasciava il posto alla progettazione. L’utopia diventava pianificazione strategica.
Ma cosa resta oggi di quel progetto?
Secondo il Rapporto ONU 2024, solo il 17% dei target è “in linea con l’obiettivo”. La povertà estrema è tornata a salire. La fame colpisce oltre 100 milioni di persone in più rispetto al 2019. Le emissioni globali non accennano a diminuire. L’accesso ai diritti fondamentali (educazione, salute, sicurezza) resta diseguale, e spesso peggiora. La forbice tra Paesi ricchi e poveri si è allargata.
Più che fallimento, si può parlare di scollamento strutturale tra ciò che l’agenda proclama e ciò che il sistema economico globale consente.
Gli SDGs non sono vincolanti. Nessuno Stato è obbligato a rispettarli. Nessuna impresa è chiamata a rivedere le proprie filiere o il proprio impatto. Nessuna sanzione è prevista per chi ignora, distorce o sabota gli obiettivi.
Tutto si regge sulla volontarietà, sulla buona volontà e sulla diplomazia multilaterale. In altre parole: sulla sabbia.
Un’agenda “universale” che non tocca i poteri reali
C’è un punto ancora più critico: gli SDGs non intaccano i meccanismi strutturali che generano le crisi che pretendono di risolvere. Non si parla mai — esplicitamente — di capitalismo. Non si tocca il ruolo della finanza globale. Non si mette in discussione l’estrattivismo che sostiene le economie del Nord globale. Non si nomina la colonizzazione ecologica che continua a scaricare sul Sud del mondo le esternalità della “sostenibilità” dei Paesi ricchi. È come se l’Agenda 2030 fosse progettata per non disturbare l’ordine delle cose, per sognare una transizione senza conflitto, una crescita verde senza limiti, un futuro migliore senza rotture storiche. Una retorica salvifica senza nemici e senza responsabilità.
La funzione ideologica degli SDGs
A questo punto, occorre dirlo con chiarezza: gli SDGs non sono solo un’iniziativa fallita. Sono stati — e sono tuttora — una grande operazione ideologica. Una narrazione rassicurante, tecnocratica, post-politica, che:
- depura il linguaggio del cambiamento da ogni tensione redistributiva,
- sostituisce la giustizia con l’efficienza, la politica con la misurazione,
- neutralizza il conflitto, parlando di partenariato tra chi estrae valore e chi lo subisce.
L’obiettivo non è mai stato cambiare il sistema, ma stabilizzarlo rendendolo meno visibilmente distruttivo. In questo senso, gli SDGs hanno funzionato: hanno fornito un discorso globale accettabile a istituzioni, governi, imprese, fondazioni, ONG. Un linguaggio condiviso che permette a chiunque — anche ai responsabili diretti delle crisi — di dichiararsi parte della soluzione.
Cosa ci insegna questo fallimento?
Il linguaggio della trasformazione, se separato da una reale redistribuzione di potere, ricchezza e possibilità, diventa anestetico. L’Agenda 2030 ci ha mostrato quanto sia facile costruire un consenso planetario attorno a obiettivi che nessuno ha il potere (o la volontà) di realizzare. Ci ha mostrato anche il limite della governance multilaterale quando è disarmata, priva di strumenti vincolanti, e prigioniera della diplomazia. Ma questo non significa che gli obiettivi — eliminare la povertà, proteggere la biodiversità, garantire diritti sociali — siano sbagliati. Significa che non possono essere realizzati dentro l’attuale configurazione del mondo.
Oltre gli SDGs: giustizia climatica, conflitto sociale, sovranità collettiva
È tempo di costruire un nuovo lessico, una nuova grammatica della trasformazione:
- che non abbia paura di nominare il nemico (profitto, sfruttamento, imperialismo),
- che metta al centro il conflitto, non la collaborazione tra diseguali,
- che riparta dai movimenti sociali, dalle comunità, dalle esperienze di lotta.
Non ci serve una nuova agenda per lo sviluppo sostenibile. Ci serve una rottura radicale con l’insostenibilità sistemica. Solo così potremo veramente “trasformare il mondo”.
FONTI PRINCIPALI:
UN Agenda 2030 – Documento ufficiale
SDG Progress Report 2023
SDG Progress Report 2024


Lascia un commento