
Se c’è un momento storico che ha davvero cambiato per sempre il rapporto tra umanità e pianeta, quel momento sono gli anni ’50.
Un decennio che spesso associamo a immagini di rinascita, boom economico, modernizzazione. Eppure proprio allora il mondo ha imboccato una strada che oggi ci sta portando verso la crisi climatica ed ecologica globale.
Gli scienziati chiamano questo processo la Great Acceleration. Il termine, coniato da Rockström et al. (2009), descrive la fase — iniziata nel secondo dopoguerra — in cui gli impatti umani sul sistema Terra hanno cominciato a crescere a ritmo esponenziale.
Consumo di energia, concentrazione di CO₂, produzione di plastica, uso di fertilizzanti, perdita di biodiversità: tutto ha preso a impennarsi proprio dagli anni ’50.
Secondo Steffen et al. (2015), è in questa fase che possiamo realmente collocare l’ingresso pieno nell’Antropocene (Crutzen, 2002), l’epoca geologica dominata dalle attività umane.
Negli anni ’50:
- La CO₂ atmosferica passava da circa 310 ppm a oltre 317 ppm, avviandosi verso una crescita inarrestabile (Plass, 1956; Revelle & Suess, 1957).
- Si produceva la prima plastica di massa (vi ricordate il Moplen?); oggi ne produciamo centinaia di milioni di tonnellate l’anno.
- La popolazione mondiale cresceva da 2,5 miliardi a quasi 3 miliardi; oggi siamo oltre 8 miliardi.
- I cicli della biosfera cominciavano a essere alterati in modo irreversibile.
Cosa diceva la stampa?
Il Great Smog di Londra del 1952, che provocò oltre 12.000 morti, fu raccontato dai quotidiani britannici come una emergenza sanitaria urbana (Bell & Davis, 2001), non come un sintomo di squilibrio ecologico.
Negli USA, gli incendi del fiume Cuyahoga venivano descritti come episodi di degrado urbano, non come segnale di collasso ecologico (Adler, 2002).
Il DDT veniva celebrato come una meraviglia della chimica industriale, mentre solo pochi studiosi cominciavano a segnalare i primi effetti sulla fauna (Carson, 1962; Lear, 1997).
L’unico tema che evocava un danno planetario era quello delle ricadute radioattive dai test nucleari: qui la stampa cominciava a parlare di “fallout globale” (Weart, 1988).
Ma della CO₂ atmosferica e dell’effetto serra, la stampa non parlava. Eppure già nel 1956 Gilbert Plass pubblicava il suo studio pionieristico su Tellus, mentre Roger Revelle e Hans Suess mostravano che gli oceani non avrebbero potuto assorbire tutta la CO₂ emessa (Plass, 1956; Revelle & Suess, 1957).
Un cambio di paradigma che non abbiamo visto
A monte di tutto ciò c’era un problema di orizzonte culturale. La visione della natura come sistema fragile e interdipendente non era ancora emersa. Il concetto di biosfera , elaborato dal russo Vladimir Vernadsky già negli anni ’20 e reso disponibile in inglese nel 1945 (The Biosphere), rimaneva confinato negli ambienti scientifici.
La natura era ancora vista come sfondo estetico o magazzino di risorse — e non come un sistema globale che può collassare.
Il paradosso della Great Acceleration
Il paradosso è evidente: proprio mentre i grafici della Great Acceleration iniziavano a impennarsi — plastica, CO₂, consumo energetico, fertilizzanti — il mondo celebrava l’ingresso nell’epoca del progresso infinito.
Si trattava di una cecità strutturale. I paradigmi culturali della modernità impedivano di leggere i primi segnali della crisi che oggi ci travolge.
Perché ci riguarda oggi
La storia della Great Acceleration ci insegna qualcosa di essenziale: le crisi più gravi non esplodono all’improvviso. Iniziano in modo graduale, quasi invisibile — finché un giorno i segnali diventano troppo forti per essere ignorati (ricordate la metafora della rana bollita?).
Siamo ancora in corsa su quella traiettoria. I grafici della Great Acceleration non si sono fermati. Anzi, in molti casi continuano a crescere.
Comprendere come tutto sia iniziato negli anni ’50 ci aiuta a capire una cosa fondamentale: se vogliamo cambiare direzione, dobbiamo prima di tutto rompere la cecità culturale che ancora ci impedisce di vedere l’intero quadro.


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