
Il 13 dicembre 2022, il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti annunciò una svolta storica nella ricerca sulla fusione nucleare: per la prima volta, un esperimento in laboratorio aveva prodotto più energia di quella utilizzata per innescare la reazione di fusione. Questo risultato, ottenuto presso la National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Laboratory, potrebbe aprire la strada a nuove fonti di energia pulita e praticamente illimitata. La notizia ebbe risonanza planetaria.
Ricordo ancora i commenti trionfalistici dei media e dei tuttologi di turno. L’idea di una fonte di energia pulita, rinnovabile, inesauribile e (forse) gratuita affascina da decenni politici, imprenditori, scienziati. Sembra il sogno perfetto: eliminare i combustibili fossili, ridurre le emissioni, far crescere l’economia senza più sensi di colpa. Ma è un sogno pericoloso. Perché non tiene conto di una verità scomoda e per molti controintuitiva: l’energia non è mai neutra, e il vero problema non è come produciamo l’energia, ma cosa ci facciamo con essa.
Dalla rivoluzione industriale in poi, l’umanità ha utilizzato ogni nuova fonte di energia per espandere la propria capacità di estrarre, trasformare, trasportare, colonizzare. Il carbone prima, poi il petrolio e il gas, hanno alimentato un sistema economico fondato sull’accelerazione, sull’estrazione illimitata e sulla crescita continua. L’energia ha reso possibile l’esplosione del PIL, dell’urbanizzazione, della produzione industriale, dei trasporti globali. Ma ha anche causato la devastazione degli ecosistemi, l’erosione della biodiversità, il cambiamento climatico, la plastificazione degli oceani.
Chi pensa che basti cambiare la fonte energetica per salvare il pianeta commette un errore logico profondo. Se il sistema rimane lo stesso – se resta intatta la logica della crescita illimitata, della concorrenza, della mercificazione – una fonte di energia infinita diventa solo un acceleratore del collasso. Con più energia potremmo trivellare più in profondità, costruire più cemento, distruggere più habitat, spostare più merci, digitalizzare e sorvegliare ogni aspetto della vita. L’energia “verde”, se viene incanalata in una struttura economica e sociale predatoria, non è innocente.
Questo fenomeno è noto da oltre un secolo. L’economista inglese William Stanley Jevons, già nel 1865, osservava che l’aumento dell’efficienza dei motori a vapore non riduceva il consumo di carbone, ma lo faceva aumentare. È il cosiddetto paradosso di Jevons: se usare energia diventa più facile, economico e “pulito”, la tendenza non è a consumarne meno, ma a usarla di più. Lo vediamo ovunque: elettrodomestici più efficienti portano a più acquisti; auto elettriche incentivano la mobilità privata anziché ridurla; server “green” giustificano una crescita incontrollata dei dati.
In questo senso, una fonte di energia rinnovabile, infinita e gratuita non è di per sé una soluzione, ma una potenziale catastrofe se utilizzata per sostenere il paradigma attuale. È per questo che il fisico e storico dell’energia Vaclav Smil afferma che ogni aumento di disponibilità energetica è un moltiplicatore di impatto ambientale (Energy and Civilization, 2017). Più energia significa più trasformazioni della biosfera, più estensione del dominio tecnologico sull’organico.
Il filosofo Ivan Illich, in Energy and Equity (1974), andava ancora oltre: ciò che conta non è la quantità di energia disponibile, ma la struttura sociale che ne governa l’uso. Una società può essere ad alta intensità energetica ma profondamente disuguale, alienata, distruttiva. Oppure può essere a basso impatto, ma ricca di relazioni, di tempo, di senso. Per Illich, l’obiettivo non doveva essere l’abbondanza illimitata, bensì la convivialità: un uso dell’energia che favorisca l’autonomia, la partecipazione, la giustizia sociale. Oggi, al contrario, ci muoviamo verso l’automazione generalizzata, il controllo algoritmico, la sostituzione della natura con il tecnosistema, tutto alimentato da un’energia che ci illudiamo sia “verde” solo perché non emette CO₂.
Jason Hickel, nel suo Less is More (2020), sottolinea che le rinnovabili non possono salvare un’economia che per sopravvivere ha bisogno di distruggere. E ha ragione. Le pale eoliche, i pannelli solari, le batterie non sono di per sé sostenibili: richiedono miniere, metalli rari, grandi quantità di terra, energia e acqua. E se la domanda continua a crescere, nessuna tecnologia sarà sufficiente. Semplicemente, moltiplicheremo gli impatti in nome di una sostenibilità apparente, mentre la macchina del consumo continua a girare a pieno regime.
Il problema quindi non è energetico, ma sistemico. Continuiamo a pensare che l’obiettivo sia “trovare una soluzione tecnica” per continuare tutto com’era prima. Ma ciò che serve è un cambio di paradigma. Dobbiamo chiederci: quanta energia è davvero necessaria per vivere bene? A cosa vogliamo dedicarla? Quali limiti siamo disposti ad accettare per proteggere la vita sulla Terra?
Uno studio molto interessante di Jason Hickel e Dylan Sullivan, pubblicato su World Development Perspectives (2024). Gli autori mostrano che, in un’economia fondata su spesa pubblica, redistribuzione e accesso universale ai servizi essenziali, sarebbe possibile garantire una vita dignitosa a tutti gli abitanti della Terra utilizzando appena il 30% dell’energia e delle risorse oggi consumate a livello globale. Non è una rinuncia al benessere, ma una sua ridefinizione radicale: sobrietà, equità, diritti garantiti per tutti, senza distruggere il pianeta.
Una civiltà matura non è quella che trova l’energia infinita, ma quella che sa orientare l’energia disponibile verso fini giusti, equi, condivisi. Una civiltà che capisce che non tutto ciò che è possibile è desiderabile, e che riconosce il valore del limite non come una rinuncia, ma come una forma di libertà.
Per questo, finché non cambieremo le finalità collettive della nostra civiltà, ogni aumento di potenza sarà solo un acceleratore del disastro. Il vero nodo non è tecnologico, è politico, etico, culturale.
Non ci salverà una nuova forma di energia. Ci salverà un altro modo di pensare.


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