
L’illusione della responsabilità personale
Mi trovo spesso a discutere con amici e colleghi sulle responsabilità della crisi ambientale e inesorabilmente emerge la contrapposizione tra “individualisti” e “sistemisti”.
E’ indubbio che negli ultimi trent’anni, il dibattito sulla crisi ecologica abbia subito una mutazione ideologica profonda. Le campagne di sensibilizzazione ambientale, soprattutto nei Paesi occidentali, hanno insistito sull’idea che la soluzione risieda nei comportamenti del singolo individuo: spegnere le luci, fare la raccolta differenziata, comprare “verde”, ridurre la propria impronta ecologica.
È così che si è affermata una nuova forma di colpevolizzazione individuale, che rimuove dal discorso pubblico le responsabilità sistemiche della crisi, spostando l’attenzione dal potere economico e politico alla “coscienza ecologica” del cittadino-consumatore. Come scrive Naomi Klein, siamo di fronte a una strategia ideologica che confonde i sintomi con le cause, e trasforma la crisi climatica in una questione di etica personale anziché di giustizia collettiva (Klein, 2014).
La soggettività neoliberale
Il neoliberismo, più che un semplice modello economico, è una macchina di produzione di soggettività. L’individuo neoliberale non è più un cittadino partecipante alla vita politica, ma un imprenditore di sé stesso, responsabile del proprio destino e delle conseguenze delle proprie azioni – anche ecologiche.
Come spiega Michel Foucault, il neoliberismo trasforma ogni campo della vita in un mercato, e ogni individuo in un capitale umano da gestire razionalmente (Foucault, 2004). Di conseguenza, anche la crisi ecologica viene internalizzata come un fallimento individuale. Se il clima cambia, è perché tu non hai fatto abbastanza compost. Se le foreste bruciano, è perché non hai comprato abbastanza biologico.
Questa logica sposta la responsabilità dalla struttura economica ai consumi del singolo, dissolvendo ogni tensione politica.
Il sistema che impone lo stile di vita
La colpevolizzazione individuale maschera un dato cruciale: non è il tuo stile di vita a distruggere il pianeta, ma il sistema economico che lo impone. Il consumo individuale è largamente modellato da scelte strutturali: urbanistica, trasporti, politiche energetiche, pubblicità, offerta commerciale. E soprattutto, da un’economia fondata su crescita infinita, accumulazione e diseguaglianza.
Secondo uno studio pubblicato su The Guardian, più del 70% delle emissioni globali di gas serra dal 1988 a oggi è attribuibile a soli 100 grandi produttori fossili (CDP, 2017). Eppure, le campagne ambientali ci chiedono di sentirci in colpa se lasciamo il caricabatterie attaccato alla presa.
In questo senso, anche la “transizione ecologica” rischia di diventare una operazione cosmetica, se non mette in discussione il modello produttivo dominante. Come afferma Jason Hickel, non serve “crescere in modo più verde”, ma decrescere selettivamente nei settori ecologicamente distruttivi e ridistribuire la ricchezza (Hickel, 2020).
Green capitalism e neutralizzazione del conflitto
Il capitalismo verde ha imparato a capitalizzare il senso di colpa ecologico. Oggi si compra sostenibile, si viaggia sostenibile, si finanzia la riforestazione come si paga l’assicurazione. Anche l’idea della “compensazione delle emissioni” è parte di questa logica: puoi continuare a inquinare, purché tu paghi per “rimediare”. Si tratta di un mercato della coscienza, in cui il potere economico resta intatto, ma assume una patina etica.
In questa dinamica, la colpa disattiva il conflitto. Il cittadino colpevolizzato non lotta, non rivendica, non accusa, ma si interroga su come “fare meglio”. Si crea una condizione di ecoansia paralizzante, che blocca l’azione collettiva e rafforza lo status quo. Lo spiega bene Andreas Malm: “quando il capitalismo incendia il pianeta, c’è bisogno di idranti politici, non di yoga ambientale” (Malm, 2020).
Dalla colpa all’organizzazione
Il passaggio decisivo è questo: trasformare la colpa in conflitto. La crisi climatica è un problema politico, non morale. Richiede organizzazione collettiva, lotta sociale, pressione sistemica. Non basta “fare la propria parte”, bisogna pretendere il cambiamento.
Come sostiene Silvia Federici, senza una trasformazione delle relazioni sociali ed economiche, ogni gesto ecologico individuale sarà sempre recuperabile dal sistema dominante (Federici, 2012).
Non si tratta quindi di non fare nulla a livello personale, ma di ridefinire il senso dell’azione: non più ridurre passivamente il danno, ma costruire attivamente un’alternativa.


Scrivi una risposta a Miro Cancella risposta