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Non è sempre stato così. Breve storia del neoliberismo.

Vi siete mai chiesti se questo modo di vivere e di pensare sia il frutto di una naturale evoluzione della società umana, non solo di quella cosiddetta “occidentale”, o invece il risultato di una concreta strategia pensata e messa in pratica in un certo periodo della nostra storia?
Oggi siamo così immersi nel pensiero neoliberista da percepirlo come naturale. L’idea che la società debba essere organizzata attorno alla concorrenza, che il successo sia una questione di merito individuale, che lo Stato debba “farsi da parte” per lasciar agire il mercato, sembra scontata.
Ma non è sempre stato così.
Non lo è stato per lunghi tratti della storia del capitalismo stesso.

In questo filmato, andato in onda il 7 novembre 2017 sulla ZDF Zweites Deutsches Fernsehen, la televisione pubblica tedesca, Die Anstalt, un gruppo tedesco di satira politica, racconta con sarcasmo come il neoliberismo è diventato il sistema socio-economico egemone nel mondo.

Il “capitalismo keynesiano”

Nel secondo dopoguerra, nei paesi occidentali, il capitalismo assunse forme profondamente diverse da quelle che conosciamo oggi. Si trattava di un modello che riconosceva allo Stato un ruolo attivo nella gestione economica, nella redistribuzione della ricchezza e nella protezione sociale dei cittadini. L’occupazione era considerata un obiettivo politico primario, e le diseguaglianze dovevano essere contenute attraverso politiche fiscali progressive, salari regolati e ampie garanzie collettive. Il mercato era visto come uno strumento, non come un fine in sé. L’economia era subordinata a obiettivi più ampi: coesione sociale, sviluppo territoriale, equità.

Questa fase, spesso definita come “capitalismo keynesiano”, si reggeva su un equilibrio delicato: lo Stato interveniva per stabilizzare la domanda, pianificare investimenti, garantire sanità e istruzione, sostenere l’industria nazionale e, in parte, frenare la finanza. Era un capitalismo profondamente diseguale e patriarcale, spesso fondato sullo sfruttamento del Sud globale e sull’estrattivismo coloniale, ma manteneva un impianto pubblico in grado di contenere le spinte distruttive del libero mercato.

Nascita del neoliberismo

Il neoliberismo nasce come reazione a questo modello. Non come una necessità storica, ma come un progetto ideologico deliberato. Già negli anni Trenta, in risposta alla crisi del 1929 e all’ascesa delle politiche socialdemocratiche e pianificatrici, alcuni intellettuali come Friedrich Hayek e Ludwig von Mises iniziarono a delineare un’alternativa: un liberalismo rinnovato che vedesse nel mercato il miglior regolatore possibile di ogni aspetto della vita collettiva.

Come raccontato dal filmato che vi propongo, La Mont Pèlerin Society, fondata da Hayek nel 1947, divenne la culla di questa visione: un pensiero elitario, controcorrente, che temeva il potere dello Stato quanto quello del socialismo. Per loro, anche una democrazia che regolava i mercati poteva essere una minaccia alla libertà (cfr. Mirowski & Plehwe, The Road from Mont Pèlerin).

Per decenni, queste idee restarono marginali. Ma negli anni Settanta, complice la crisi petrolifera, la stagnazione economica e l’inflazione crescente, il consenso keynesiano iniziò a vacillare. I fautori del neoliberismo furono pronti a occupare il vuoto, sostenuti da una rete capillare di think tank, fondazioni private, cattedre universitarie e capitali finanziari. Il laboratorio fu il Cile di Pinochet, dove gli economisti della Scuola di Chicago applicarono con brutalità un primo modello di liberalizzazione radicale: tagli alla spesa sociale, privatizzazione di pensioni e servizi, compressione dei diritti sindacali. Ma fu con l’elezione di Margaret Thatcher nel 1979 e di Ronald Reagan nel 1980 che il neoliberismo salì al potere nei centri decisionali dell’Occidente.

L’egemonia neoliberista

Da allora si assistette a una progressiva trasformazione delle istituzioni, del linguaggio, delle mentalità. Lo Stato non fu più visto come garante di diritti, ma come intralcio alla libera iniziativa. I servizi pubblici furono privatizzati o resi residuali. Le tutele sul lavoro furono smantellate in nome della flessibilità. Il debito pubblico, spesso causato da politiche fiscali favorevoli ai ricchi, venne usato come pretesto per giustificare tagli alla spesa sociale. Anche la politica si piegò alla logica dell’impresa: efficienza, competitività, managerialismo. L’idea stessa di cittadino venne rimpiazzata da quella di consumatore.
Negli anni Novanta, con il crollo dell’Unione Sovietica e la cosiddetta “fine della storia” (Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo), il neoliberismo si impose come unico orizzonte possibile. Persino i partiti progressisti, come il Labour di Tony Blair o i Democratici di Bill Clinton, adottarono le sue logiche, riformulando il welfare in chiave di “responsabilizzazione individuale” e abbracciando la deregulation finanziaria. Nel Sud globale, le politiche neoliberiste vennero imposte tramite le istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, sotto forma di “riforme strutturali” che smantellarono le economie pubbliche, aprirono ai capitali esteri e impoverirono milioni di persone (David Harvey, Breve storia del neoliberismo).

Il trasformismo neoliberista

Il crollo finanziario del 2008 mise a nudo le contraddizioni del modello neoliberale. Banche e istituzioni vennero salvate con denaro pubblico, mentre milioni di cittadini persero il lavoro, la casa, le tutele. Sembrava l’inizio della fine. Ma la crisi non produsse un vero cambiamento di paradigma. Anzi, la logica dell’austerità – imposta in particolare ai paesi europei – peggiorò le diseguaglianze e rafforzò il controllo della finanza sull’economia reale (Mark Blyth, Austerity: The History of a Dangerous Idea). Il neoliberismo sopravvisse, mutando forma: divenne più tecnocratico, più digitale, più verde.

Oggi si presenta sotto spoglie nuove: come green economy, come innovazione tecnologica, come educazione all’“imprenditorialità di sé”. Ma resta fedele alla sua matrice: una visione del mondo in cui tutto – salute, ambiente, relazioni umane – può essere convertito in merce e sottoposto alla razionalità del profitto. Persino la crisi ecologica viene trattata come una questione di scelte individuali, ignorando le responsabilità strutturali del sistema economico (Jason Hickel, Less is More).

Non è sempre stato così

Ricordare che non è sempre stato così è un atto politico. Significa rompere l’incantesimo dell’inevitabilità. Significa riconoscere che anche il capitalismo, per quanto pervasivo, ha avuto fasi storiche diverse, e che le sue forme non sono eterne. Esistono alternative. Esistono storie diverse da raccontare. E, forse, futuri diversi da costruire.


Questo testo e/o contenuto grafico è stato elaborato con il supporto di strumenti di intelligenza artificiale, integrati in un processo critico e curato di scrittura collaborativa. Scopri di più nella nota metodologica .



Una replica a “Non è sempre stato così. Breve storia del neoliberismo.”

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    evento correlato

    Giovedì 10 luglio – ore 18.30

    Presentazione del libro

    All-In: a revolutionary theory to stop climate collapse
    Organizzato da: Rete Ecosocialista

    Con: Sinan Eden (co-autore di All In)

    A partire dall’analisi della stretta connessione tra capitalismo e crisi climatica, il libro propone una strategia di azione collettiva per una trasformazione globale, ponendo al centro la costruzione di un movimento di rottura.

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