La sopravvivenza della specie umana dipenderà dal superamento del modello economico in cui viviamo. Dall’ecosocialismo al comunismo della descrescita, il filosofo giapponese Saitō Kōhei ha ripensato Marx per il XXI secolo. Lo intervista Dario Bassani, responsabile editoriale di Lucy sui mondi.
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Per Saitō Kōhei il futuro del pianeta appare segnato da un intreccio di crisi: inflazione crescente, disastri naturali, conflitti sempre più diffusi, aumento delle disuguaglianze. A suo giudizio, l’orizzonte più vicino a cui stiamo andando incontro non è una transizione pacifica verso la sostenibilità, ma quello che definisce “fascismo climatico”: un mondo in cui le élite tenteranno di gestire il collasso ecologico attraverso soluzioni autoritarie, rafforzando i privilegi di pochi e scaricando i costi su popolazioni povere e vulnerabili.
Il percorso che lo ha condotto a diventare oggi uno degli intellettuali marxisti più influenti non è stato lineare. Da giovane non proveniva da un ambiente politicamente impegnato e, al liceo, non era particolarmente interessato alla politica. La svolta arrivò all’inizio degli anni Duemila, con gli attentati dell’11 settembre e la successiva guerra in Iraq. All’epoca, sedicenne, cominciò a leggere Noam Chomsky e altri critici del militarismo statunitense. Questo lo spinse ad approfondire il socialismo, anche se ancora non conosceva Marx.
L’incontro con l’opera di Marx avvenne solo a diciott’anni, all’università di Tokyo. Qui scoprì un autore capace di offrire strumenti per comprendere le disuguaglianze sociali, la guerra e le ingiustizie della società giapponese. La crisi finanziaria del 2008 lo convinse ulteriormente della centralità del pensiero marxista: ciò che Marx aveva scritto oltre un secolo prima rimaneva straordinariamente pertinente per analizzare un capitalismo che produce instabilità e sfruttamento.
Un’altra tappa fondamentale fu il 2011, con il grande terremoto e il disastro nucleare di Fukushima. Saitō comprese allora che il capitalismo non si limita a creare crisi economiche o disuguaglianze, ma produce anche disastri ecologici e tecnologici, frutto di un sistema fondato su produzione e consumo di massa. Fu in quel momento che la dimensione ecologica divenne inseparabile, per lui, dalla critica del capitalismo.
Per approfondire Marx decise di trasferirsi in Germania, convinto che nel Paese di origine del filosofo avrebbe trovato un terreno fertile. La realtà fu diversa: nelle università tedesche, dopo la riunificazione del 1991, i marxisti erano stati emarginati e la discussione accademica quasi spenta. Ma a Berlino esisteva ancora una vivace scena intellettuale e politica, fatta di gruppi di lettura e attivismo. Soprattutto, entrò in contatto con la MEGA, Marx-Engels Gesamtausgabe, la nuova edizione completa delle opere di Marx ed Engels curata dal Internationale Marx-Engels-Stiftung (IMES).
Qui fece una scoperta decisiva: Marx non era interessato soltanto a economia e politica, ma leggeva con attenzione testi di scienze naturali, confrontandosi in dibattiti sull’esaurimento del suolo, la deforestazione e perfino l’estinzione delle specie. Un Marx diverso, più complesso e più attento alle questioni ecologiche. Ciò contraddiceva l’immagine consolidata del Marx “produttivista”, che vedeva nello sviluppo capitalistico una tappa necessaria e positiva da ereditare in chiave socialista.
Al contrario, i manoscritti mostravano un Marx che, soprattutto negli anni maturi, diventava sempre più critico nei confronti delle tecnologie capitalistiche. Egli riconosceva che queste non erano strumenti neutri: erano progettate per estrarre valore in modo sempre più efficiente dai lavoratori e dalla natura. Questa constatazione sollevava un problema cruciale: come utilizzarle in una società socialista? Saitō, riflettendo su questo, sostiene che alcune tecnologie, come il nucleare, non possono essere semplicemente “socializzate”, perché restano pericolose, antidemocratiche e concentrate nelle mani di pochi.
Qui entra in gioco una distinzione importante, ripresa dal filosofo André Gorz: esistono tecnologie aperte, che favoriscono la gestione democratica e diffusa (come le energie rinnovabili distribuite), e tecnologie chiuse, che invece concentrano potere, conoscenza e risorse (come il nucleare). Marx, con il tempo, si spostò sempre più verso questa consapevolezza: non tutta la tecnologia può essere riutilizzata per fini emancipatori. Alcune forme sono intrinsecamente incompatibili con la democrazia e l’uguaglianza.
Le energie rinnovabili rappresentano un caso interessante: da un lato aprono la possibilità di una produzione decentrata e più orizzontale, dall’altro comportano comunque estrazioni e impatti ambientali. Per questo Saitō sottolinea che non basta affidarsi a un “Green New Deal” o a una transizione energetica basata solo su nuove tecnologie: la crescita infinita resta impossibile. Marx stesso, negli anni finali, abbandona l’idea della “massimizzazione produttiva” e intuisce la necessità di ripensare radicalmente il nostro modo di vivere e produrre.
Al centro della sua riflessione c’è il concetto di metabolismo (Stoffwechsel), ripreso dal chimico Justus von Liebig. Ogni società vive di scambi metabolici con la natura: estrazione di risorse, produzione, consumo e restituzione di scarti. Ma il capitalismo ha riorganizzato questo metabolismo sulla base dell’accumulazione illimitata di profitto, generando uno squilibrio strutturale fra metabolismo sociale e metabolismo naturale. È ciò che Marx chiamò frattura metabolica.
Nell’Ottocento questo squilibrio si manifestava come esaurimento dei suoli e deforestazione; oggi lo vediamo nel cambiamento climatico, nei cicli del carbonio e dell’azoto, nell’inquinamento globale. Il capitalismo, però, non risolve queste rotture: le sposta. I Paesi ricchi scaricano i costi ecologici sul Sud globale, e all’interno delle stesse società i danni ricadono soprattutto sui più poveri. Gli effetti della crisi climatica colpiscono di più chi ha meno mezzi per difendersi, mentre chi è responsabile può proteggersi o addirittura trarne profitto.
Negli ultimi anni della sua vita, Marx studiò con grande attenzione le società precapitalistiche non occidentali: le comuni agricole russe, le comunità in India, America Latina e Indonesia. All’inizio le aveva liquidate come “arretrate” e prive di storia, ma col tempo cambiò radicalmente idea. Vide che queste società, basate su strutture collettive e pratiche comunitarie, erano in realtà molto più sostenibili e durature del capitalismo occidentale. Arrivò persino a scrivere che l’Occidente doveva “ritornare” a imparare da esse, piuttosto che considerarsi il modello universale di sviluppo.
Questo Marx “tardo” appare sorprendentemente vicino a sensibilità ecologiche e decoloniali contemporanee: critica l’eurocentrismo, riconosce la distruttività delle tecnologie capitalistiche, valorizza le forme di vita comunitarie e più sostenibili. È da qui che Saitō elabora il concetto di socialismo della decrescita.
Inizialmente, nei suoi lavori, Saitō parlava di sostenibilità senza usare il termine “decrescita”. Ma dopo il 2018–2019, con la crescita dei movimenti climatici guidati da Greta Thunberg, comprese che era un’illusione credere in una crescita infinita, anche in chiave socialista o “verde”. Greta affermava che la fede nella crescita eterna è una favola, e i dati lo confermano: stiamo sovraproducendo e sovraconsumando oltre i limiti planetari. L’efficienza tecnologica non basta, perché porta a produrre e consumare ancora di più: è il cosiddetto effetto rimbalzo.
Da qui l’idea che la critica marxista del capitalismo e la prospettiva della decrescita debbano incontrarsi. Tradizionalmente, socialisti e decrescisti si guardano con sospetto: i primi accusano i secondi di austerità e antitecnologia, i secondi accusano i marxisti di produttivismo. Ma Saitō mostra come negli scritti tardi di Marx ci sia un punto di contatto: la valorizzazione di società egualitarie e sostenibili, stabili nel tempo, come le comuni russe. Non arretratezza, ma forza: la capacità di vivere entro limiti senza distruggere la natura.
Il socialismo della decrescita che Saitō propone non è una rinuncia malinconica, ma un progetto positivo di liberazione: significa produrre meno, ma meglio; ridurre sprechi e consumi inutili; garantire equità e dignità a tutti; guadagnare tempo per relazioni sociali e attività significative; riconquistare la democrazia sottraendola al dominio delle tecnologie chiuse e delle logiche di profitto.
In definitiva, la lezione che Saitō trae da Marx è che non basta rendere più efficiente l’attuale modello di sviluppo. Occorre un cambiamento radicale: superare la logica della crescita infinita e costruire una società che viva nei limiti ecologici del pianeta. Un socialismo della decrescita che unisca uguaglianza, sostenibilità e libertà.
Conclusione
Il pensiero di Saitō Kōhei mostra come Marx, se letto nei suoi scritti più tardi e meno conosciuti, possa diventare un riferimento cruciale per comprendere la crisi del XXI secolo. Non un Marx nostalgico del progresso industriale, ma un Marx critico verso le tecnologie distruttive, attento alla frattura metabolica, aperto alle esperienze comunitarie non occidentali.
Da qui l’idea che il capitalismo ci spingerà all’estinzione se non verrà superato, e che l’unica alternativa realistica sia una società di decrescita socialista, capace di vivere meglio con meno, nel rispetto dei limiti naturali e dell’uguaglianza sociale.
Per approfondire:




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